Il mercato che cambia

Una rubrica a cura del Centro Studi UNA


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L’immagine fa riferimento alla rubrica “Idee Vincenti” a cura di Davide Boscacci pubblicata nello scorso numero.

Sanremo e Super Bowl 2023: lontani ma non troppo.

Un’analisi a mente fredda dell’approccio pubblicitario ai due grandi eventi evidenzia enormi differenze ma anche alcuni tratti comuni, destinati a crescere.

La crescente popolarità del festival della canzone italiana e la sua vicinanza cronologica con l’evento clou dello sport americano, il Super Bowl, ci fanno dire da qualche anno che Sanremo può diventare per la pubblicità italiana quello che il Super Bowl è per la pubblicità negli USA.

I limiti di un paragone tra gli eventi sono stati già chiaramente evidenziati da un articolo di Davide Boscacci sull’ultimo numero di UNA News. Le dimensioni dei due avvenimenti sono troppo diverse: uno spot da 30 secondi al Super Bowl vale una spesa di circa 7 milioni di dollari, e consente di raggiungere oltre 100 milioni di persone, generando una awareness e un impatto senza uguali. Al confronto, i 10 milioni e mezzo di audience registrati in media dalle 5 serate sanremesi sono ben poca cosa (anche se hanno il plus di essere, appunto, 5 lunghe serate; e non un evento che si esaurisce in un giorno solo).

La differenza “dimensionale” giustifica ancora (o almeno spiega) alcune differenze nell’approccio alla creatività degli spot: come ha ben spiegato Davide, creatività e produzioni ad hoc per Sanremo ancora non sono la regola; mentre lo sono da sempre per il Super Bowl. Le medesime considerazioni di critica all’approccio italiano sono riportate nell’articolo che la pagina Marketing del Sole 24 Ore ha dedicato alla pubblicità sanremese. L’analisi del Sole, con gli interventi di un docente della Cattolica (Axel Fiacco) esperto di format e del produttore TV Riccardo Pasini, evidenzia una “mancanza di coraggio, di scelte conservatrici da parte delle aziende inserzioniste che sembrano non abbiano capito ancora il potenziale inespresso delle piattaforme e si accontentino del solito spot”.

Le dimensioni ciclopiche del Super Bowl e il suo essere un unicum in un anno intero di offerta televisiva lo hanno trasformato in un place-to-be per le grandi marche: la corsa ad esserci ha generato notevoli spinte inflazionistiche negli ultimi anni. Sempre più soldi per accaparrarsi gli spazi. Sempre più prezioso ossigeno per le casse della NFL e dei broadcaster.

Dal punto di vista della creatività pubblicitaria, il Super Bowl fa soprattutto la felicità dei grandi studi di produzione e dello star system. Il tipico spot mette in vetrina almeno una celebrità hollywoodiana e non bada a spese quanto in post-produzioni e effetti speciali. Lo spazio per la sperimentazione è ristretto a pochi coraggiosi. Le analisi più interessanti sono quelle sulla composizione del gruppo degli investitori: il 2023, ad esempio, è stato un anno di “normalizzazione”, dopo qualche anno di tech companies e criptovalute (più o meno fortunati, gli esiti di queste aziende, dopo i grandi investimenti in pubblicità).

Esaminando gli spot dell’edizione 2023, si può prendere nota di tutto ciò che è uscito dai canoni: Amazon ha provato a sostituire il solito costoso testimonial con … un cane. E si può dire che l’esperimento sia riuscito. Disney è riuscita a fare una grande produzione, senza produrre nulla! Ma soltanto montando spezzoni – ovviamente emozionanti – dei suoi grandi film. L’half time show di Rihanna ha spinto il product placement oltre nuove frontiere: secondo Forbes il semplice uso da parte della star di un particolare make-up durante la sua performance ha generato 5,6 milioni di impatto media nelle prime 12 ore. Il tutto a beneficio di un brand di proprietà della stessa Rihanna. E la lauta ricompensa di una performance che, secondo tradizione, non genera un compenso per l’artista che si esibisce.

E Sanremo?

Il Festival ha alcune sue peculiarità, che denotano la sua importanza. Già da qualche anno, grazie al notevole allargamento della selezione musicale, è riuscito a coinvolgere anche fasce d’età che sembravano negli anni passati totalmente indifferenti. Se Super Bowl è sinonimo di maschio adulto americano (in termini di audience), Sanremo ha invece una “ecumenicità” che quasi nessun altro grande evento riesce ad avere. Come racconta il report Sanremo Unpacked di dentsu, oggi la competizione musicale genera anche competizione online, con l’incontro-scontro fra le fandom più accanite degli artisti in gara. E Sanremo è ormai un fenomeno culturale a tutto tondo, che tocca musica, attualità, celebrità, moda e società.

Non solo quindi Sanremo avrebbe bisogno di un approccio “ad hoc” da parte dei brand (come il Super Bowl). Avrebbe anche bisogno che le marche sappiano cavalcare le due vite del Festival: quella in TV e quella fuori dalla TV; entrare nelle conversazioni; generare a loro volta conversazioni. E approfittare dei tanti spazi ibridi, tra contenuto e pubblicità, che il format Festival offre (ora anche fuori dal teatro Ariston).

Sia che si parli di Super Bowl sia che si parli di Festival di Sanremo, bisognerebbe poi riflettere sull’efficacia della presenza pubblicitaria. Rispetto al Super Bowl, la letteratura è ampia. Già nel 2014, uno studio evidenziava come l’80% delle pubblicità al Super Bowl non aiutassero le vendite (in realtà, solo su quella specifica metrica di intention to buy indagata nel breve periodo). Del resto, le metriche associate ai grandi investimenti pubblicitari sono tante e diverse. YouGov analizza da anni l’efficacia delle campagne misurando i cambiamenti in Ad Awareness, Buzz e Consideration. E l’impatto della pubblicità al Super Bowl è quasi sempre significativo, al netto di qualche errore nel timing o nella creatività che può dare qualche brutta sorpresa. La tendenza dei grandi investitori americani è però quella di “play it safe”, giocare sul sicuro. Da lì, l’uso / abuso di celebrità e di grandi produzioni. Lo spot medio del Super Bowl è esattamente quello che si aspetta lo spettatore medio del Super Bowl, con poco spazio per la sperimentazione, come spiegato bene in questo articolo di Campaign.

Un altro punto estremamente rilevante è quello sul breve o lungo periodo. Qual è il momento giusto per misurare se uno spot al Super Bowl, o al Festival di Sanremo, ha funzionato? Molti investitori hanno progettato la propria presenza con l’ambizione di monetizzarla subito, quindi di vedere un ritorno immediato. È il caso, negli USA, delle Dot Com di qualche anno fa; o dei più recenti operatori di crypto finance. Facile dire che per queste aziende l’investimento non sia stato ben ripagato. Viceversa, ci sono marchi che investono sul Super Bowl con sponsorizzazioni e placement pluriennali, addirittura impedendo l’accesso ad aziende concorrenti (AB InBev ha appena terminato 25 anni di esclusiva). E anche in Italia, vediamo approcci simili, se pensiamo agli anni di TIM a Sanremo; e, più di recente, al biennio da Main Sponsor di Eni / Plenitude. In questi casi, è chiaro che al ritorno di breve periodo si accompagnano obiettivi di brand equity di medio-lungo periodo. I benefici per le marche saranno più diluiti nel tempo, ma anche molto più duraturi una volta ottenuti.

A questo punto possiamo concludere, tornando sul paragone tra Super Bowl e Sanremo: cosa accomuna i due eventi e il loro ruolo per il marketing e la comunicazione?

La necessità di un approccio strategico, prima, meglio se pluriennale; e creativo, poi.

Solo così, si riesce a trasformarli in potente veicolo di risultati.

Centro Studi UNA